Primula, Palinuro. foto di G. Ciao

 

 

 

 

Parma. Ascolto e guardo dal televisore scene di guerra. Le ho già viste tante altre volte, in tante parti del mondo.

Mi raggiungono nello studio in casa e trovo tutto questo spettacolo a domicilio un poco immorale, perché io sono comodamente seduto alla scrivania ed altri soffrono e muoiono.

Guardo gli oggetti intorno a me

Guardo gli oggetti intorno a me, i quadri di famiglia, le cose raccolte, testimonianza della bellezza che quelli, che n’erano capaci, mi hanno lasciato.

Capisco che ancora, così tanto bello deve convivere con i combattimenti, laddove sopravvivere è l’unico comandamento possibile, mentre viene giù tutto quanto di bello custodivi, e s’allontana l’amore che conoscevi, dissolto dall’odio, dall’irrazionale istintivo degli uomini.

Tutto ciò mi avvilisce, perché in qualche parte del mondo, da quando ho memoria, sempre una guerra ha deformato gli animi, ha infranto l’idea d’una pace universale, ch’è rimasta solo un’aspirazione irrisolta, impossibile da ottenere, mentre l’aggressività, come un vizio, torna ogni volta nonostante i buoni propositi.

Mi prendono, come se fosse oggi, le parole dedicate a me, come ammonimento, da mio padre e mia madre, le narrazioni di guerra, quella passata nel 1943 nelle loro vite, devastandole, e ricordo lo sgomento incredulo dei loro occhi mentre mi parlavano, come se ancora avessero nei sensi i loro stessi racconti.

Quindi mai nulla è cambiato.

Siamo condannati a convivere col nostro peccato originale, colla nostra genetica, che ci lascia profonde la rabbia e la ferocia, condannati a vagare per sempre su questo pianeta, ch’è il nostro purgatorio inumano?

Per sollevarmi dall’incubo porto la mente alle figure delle pitture rupestri. Quelle immagini piene d’intensa espressività che gli uomini delle caverne ci hanno lasciato.

Quelle impronte di mano, quella straordinaria osservazione dell’esistenza ch’era già coscienza dell’essere al mondo, e con lei il bisogno d’esprimere l’emozione vivida d’uno spirito ormai consapevole, ammirato dalla bellezza del mondo e della vita.

Il corto circuito fra semplice visione e la sua espressione emotiva nel pensiero umano.

Millenni bui

In quei millenni bui, bui come l’ora di oggi, una mente d’artista, forse in regalo alla sua gente, ha lasciato sulle rocce l’immagine d’un bello, che non riusciva a tenere solo per sé, ma da sé, dalla sua sensibilità ha voluto proiettarne su una parete di pietra, posandone una traccia emotiva senza sapere che vita lunga avrebbe avuto quel primo segno dell’uomo.

Così, d’allora, ogni sentimento sia di gioia che di dolore lo possiamo trasformare per gli altri in un segno, traducendo l’immaginazione in valori ed i valori nei sensi concreti, in un godimento dell’animo, addirittura nella felicità estatica d’una contemplazione.

Ammirazione per la pittura

C’avvince l’ammirazione per una pittura, per l’esecuzione perfetta d’una musica, una danza, in un teatro, in un museo, addirittura per strada se passa la banda.

Probabilmente la distruttività e l’amore per ogni arte, stanno insieme in qualche parte di noi: è l’innato impasto delle pulsioni, che ci fa esseri umani.

È quello che ci costringe a scegliere in ogni momento fra bene e male come li sentiamo muoversi dentro.

Ma alla fine è il nostro bisogno di stringerci al bello, a quel tanto o quel poco che ci offre l’emozioni migliori, a convincerci ch’è profonda felicità  nell’esserci al mondo.

È questo che ci salverà, ci guiderà rassicurandoci sulla nostra dignità umana laddove ancora convivono distruttività ed amore, messi insieme forse ancora per millenni, prima che qualcosa definitivamente chiuda i conti nell’animo umano, a questo drammatico contraltare.

Quindi, oggi, anche in tanta tragedia ci tocca preservare il diritto alla bellezza e all’amore per la vita, consegnando pure a chi soffre in battaglia, quale che sia la divisa, la certezza che quel tant’altro lo attende affettuoso dopo il dolore.

Purtroppo Ernest Hemingway direbbe che la campana suona anche per noi.

Anche a noi tocca dolerci e soffrire, affrontare cure e gravità, che oggi premono.

Ma quell’uomo nelle caverne, pure in una vita breve e pericolosa ha voluto lasciarci il segno d’una prima spiritualità.

Così ha dipinto la testimonianza che il meglio dell’uomo era già nato.

Come lui, per tutti quelli che verranno, rimaniamo fermi nell’ideale che possiamo darci: non far dimenticare quanto possa essere grande e splendida la creatività umana, quell’unico, che dalla mano dell’uomo dà valore alla vita fin dall’inizio.

Dal disegno di un bambino, da quel segno, alla fine incredibilmente prolifico, che il nostro comune antenato, per quanto poteva, ci ha lasciato in eredità sui muri d’una grotta.

 

di Gaetano Galderisi

psichiatra e psicoterapeuta

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di Gaetano Galderisi

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