Lo chef stellato Cristian Torsiello

Chi è lo chef Cristian Torsiello?

“Un ragazzo che vuole provare a realizzarsi e a riscattare una partenza anonima.

Non vengo da una famiglia di ristoratori, parto dal nulla e, con tanti sacrifici, perseguo gli obiettivi del buono, del bello, dell’eccellenza.

Ancora adesso sacrifico la mia famiglia e i miei amici”..

Quante ore al giorno lavora lo chef Torsiello?

“Non è come qualche anno fa,  quando ero cuoco avevo le mie mansioni da svolgere. Adesso ho delle responsabilità.

La mattina comincio organizzando i primi giri per tra spesa, poi ci sono le telefonate, i confronti con i colleghi e tanto altro. A notte fonda smetto di lavorare e bevo un tè”.

 

Un tè a mezzanotte?

“Anche un caffè. Noi chef siamo composti al 99% da cucina”.

Ci metti lo zucchero nel caffè?

“Quando non voglio sentirmi in colpa lo prendo senza zucchero, ma totalmente amaro non mi piace, credo molto nelle sfumature dei gusti”.

Qual è il primo sapore che ricordi?

“Il latte e caffè dei miei nonni che avevano gli animali in stalla. Era latte freschissimo con caffè della moka sul fuoco, non ai fornelli. Qualcosa di selvaggio”.

Hai un piatto preferito?

“Non esiste il mio piatto preferito. Esiste il piatto giusto per il desiderio di quel momento.

Potrebbe essere un riso in bianco, un burro e acciughe o uno spaghetto al pomodoro”.

Da Valva a Roccaraso, ritorno a Valva, approdo all’Osteria Arbustico a  Paestum. La tua prossima meta?

“Non amo spostarmi in continuazione. Per dare credibilità a un progetto e a un lavoro c’è bisogno di dare un riferimento alle persone”.

 

«Il filosofo tedesco Ludwig Feurbach sosteneva che “siamo ciò che mangiamo”. E’ così anche per te?

“Noi siamo ciò che amiamo, ciò che mangiamo, ciò che beviamo, l’aria che respiriamo, le persone che ci circondano”.

La stella Michelin ha segnato un traguardo importante nella tua vita professionale, cosa è cambiato?

“Cambiano tante cose, anche gli occhi con cui gli altri ti vedono. Alcuni si fanno idee strane, forse si sentono un po’ artisti.

A me questo non interessa e non rispecchia il mio modo di essere”.

Nella società edonistica lo chef è una star, ma tu sembri ben saldo nelle tue radici. Ti capita di sentirti, qualche volta, un po’ star? Se sì, in quali momenti?

“No, non mi è mai capitato, anche perché il mio obiettivo è fare bene quello che faccio. Star? Assolutamente no”.

Lucio Dalla cantava “l’impresa eccezionale é essere normale”.

“La stella Michelin è un riconoscimento mondiale, però per me la soddisfazione è stata pari a quella che ricevo quando un cliente mi dice che è stato bene da me e poi torna.

E’ comunque un punto di arrivo e riesce ad aprire tante porte se si dimostra di lavorare in modo serio.

La cucina è abbastanza meritocratica”.

Qual è la tua idea di cucina italiana?

“Non ho un’idea di cucina italiana, ho un’idea di cucina globale fatta di rispetto delle materie prime, dei clienti e dei produttori.

Il grosso pregio della cucina italiana è che vive di tradizioni familiari, di paese, locali, regionali.

Una cucina che dobbiamo salvaguardare riuscendo a capire quanto vale davvero”.

 

Cosa non può mancare nella tua cucina?

“Il piatto che il cliente chiede quando ritorna. Adesso è lo spaghettino allo zafferano e l’agnello che prendo dai pastori di Valva.

Gli elementi e la provenienza sono gli stessi, in base alla stagionalità cambiano gli abbinamenti”.

Gli ingredienti che utilizzi più spesso?

“L’agnello, lo zafferano, le erbe aromatiche.

La cucina è scandita dalle stagioni, ma ho sempre i capisaldi della tradizione campana: la colatura di alici, le alici, il pomodoro di stagione, la frutta secca”.

Consiglieresti a un giovane di intraprendere la tua strada?

“Sicuramente. Poi cerco di far ragionare i ragazzi e li dissuado nel momento in cui vedo insicurezza.

Diventerebbe un calvario, altro che lavoro. Sono docente in una scuola di alta formazione, non potrebbe essere il contrario”.

Formare bravi chef vuol dire programmare un futuro diverso per le nuove generazioni e per i territori. Credi che siamo sulla strada giusta?

“Sarebbe necessario un supporto maggiore da parte degli enti territoriali.

Supporto non finanziario, ma inteso come connessioni tra competenze, artigianalità e eccellenze”.

Quanto ha inciso il Covid sull’enogastronomia?

“Il Covid ci ha messo nella condizione di fare delle scelte.

Chi voleva fare passi importanti ha preso coraggio e li ha fatti. E poi ci ha educati.

Non eravamo abituati alle prenotazioni, ad evitare luoghi congestionati.

Il virus ci ha insegnato a lavorare meno, ma meglio.

O almeno avremmo dovuto imparare questo, ma non credo che l’abbiamo imparato tutti”.

 

Come immagina il futuro?

“Mi piacerebbe eleminare un po’ di stereotipi.

Non bisogna puntare il dito sui costi.

Tutto ha un costo. Scegliere il buon cibo è come scegliere un maglione, si può trovare a cinque euro, ma anche a prezzi ben più alti.

E poi una buona cena durerà di più nella testa.

L’alimentazione è importante, parliamo tanto di dieta mediterranea, però nella pratica mangiamo anche le schifezze. Evitiamo il cibo spazzatura”.

La tua tentazione più forte in cucina e non solo.

 

“Se sono tentato da qualcosa la faccio. Sono una persona ragionevole, non penso a cose folli.

In cucina non mi nego nulla, nella vita imparo a riconoscere le cose da non fare”.

Quando vuoi stupire una donna le prepari un piatto particolare oppure la porti a cena fuori?

“Quando mi viene in mente di stupire una donna mi fermo e ci ripenso. Mia moglie avrebbe qualcosa da ridire”.

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di Ornella Trotta

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