I banchi, ora vuoti, riposano in silenzio. Non c’è rumore, ma c’è memoria.
Una memoria fatta di voci intrecciate, mani alzate con esitazione o foga, risate che sfuggivano come farfalle e occhi persi nel vuoto di un pensiero troppo grande.
Sopra la cattedra, il registro consunto accanto a un tablet acceso: l’uno annota, l’altro accompagna. Insieme raccontano il mestiere silenzioso dell’insegnare, fatto di pazienza, attenzione e piccoli gesti quotidiani che raramente trovano posto nei discorsi ufficiali, ma che sanno cambiare le vite.
Oggi abbiamo parlato di feudalesimo, di giuramenti, obbedienze, catene invisibili che ancora oggi condizionano la nostra libertà.
Abbiamo guardato indietro per capire il presente, e ci siamo chiesti: quanta strada ci separa ancora dalla piena democrazia?
Una domanda che pesa come pietra, ma che vale la pena porre, specialmente tra queste mura scolastiche, che dovrebbero essere il primo laboratorio di coscienza civile.
Poi la lezione finisce, lentamente. Ma qualcosa resta sospeso nell’aria.
Dal bagno, quasi impercettibili, fuoriescono i singhiozzi di una ragazza.
Non servono parole. Ci sono lacrime che parlano da sole: raccontano di un addio che fa male, di un tempo condiviso che non si vorrebbe lasciare, di un legame che ha superato le apparenze.
Il Bello è che in quella voce rotta, che cerca un angolo per sciogliersi senza spettatori, c’è tutta la verità della scuola: che educare è anche lasciar andare. Con grazia. Con rispetto.
E poi c’è la foto.
La classe intera raccolta in un abbraccio senza corde. Ragazze e ragazzi con lo sguardo fiero e leggero, uniti da mesi di dialogo, scoperte, scontri e riconciliazioni.
Alle spalle, un drago rosso: feroce ma protettivo, simbolo di energia, trasformazione, coraggio. Un custode silenzioso delle nostre parole e delle nostre paure.
È questo che resta, alla fine.
Non i voti, non le griglie ministeriali, ma l’umanità condivisa. I dubbi coltivati insieme. Le domande che ancora risuonano anche quando la campanella tace.
Ed è in quel momento sospeso, mentre chiudi il registro per l’ultima volta e soffi via la polvere delle ultime correzioni, che arriva la voce familiare e lieve della collaboratrice scolastica, a riportarti alla realtà.
Con una domanda semplice e carica di senso, quasi a voler confermare che sì, anche quest’anno qualcosa è accaduto, qualcosa è stato fatto: “Avete finito, professoressa?”