Francesco Castellucci ritratto da Antonio Muti

CAGGIANO. Incipit è la prima opera letteraria di Francesco Castellucci.

 

Edito da Albatros Edizioni, il libro è una raccolta narrativa di cinque brevi racconti, in cui i protagonisti si ritrovano coinvolti nell’incedere del tempo. Incontriamo l’autore alla presentazione dell’opera organizzata dall’Associazione “Tempi Nuovi” con il patrocinio del Comune di Caggiano, che ci racconta la genesi del romanzo e le sue mille sfaccettature.

Come nasce Incipit?

I racconti del libro sono tutti introdotti da un paragrafo iniziale, un incipit appunto, che vuole essere una trascrizione del pensiero complesso, un germe che darà vita e densità alle singole frasi.

Essi sono un’incursione esplicita della filosofia; ne rappresentano il punto di contatto esplicito con la narrativa, con le facoltà del racconto e le vicende legate alla vita attiva dei singoli protagonisti.

Parlando dello stile della scrittura del romanzo, quali sono gli autori a cui ti sei maggiormente ispirato?

Sicuramente all’origine della scrittura c’è stato un mio avvicinamento alla vita. Mi sono accorto subito della natura spuria di tale avvicinamento: dati, partecipazione e relazioni erano spurie e semplicemente ne ho fatto narrativa. Ciò ha confermato le problematiche connesse a una narrativa non realistica.

C’è chi ci ha visto riferimenti alla poetica di Joyce e un riferimento a Il Giovane Holden di Salinger, in realtà le scelte formali sono espressioni reali dello status dell’opera stessa. Si lambiscono generi codificati, ma nel complesso Incipit si pone come opera aperta, una traccia, un segno o una possibilità.

Il libro vuol essere un invito alla scrittura, un evento minimo per esteriorizzare una esemplificazione del pensiero complesso, avvinghiato nel procedere attivo delle nostre vite.

In sintesi: volevo avere un racconto realistico però di totale invenzione.

Cosa mi dici, invece, dei personaggi?

Uno scrittore si trova di fronte a delle vite. Può interagire con esse empiricamente? Nel mio libro non c’è una descrizione “ufficiale” dei personaggi; è come se ognuno li immaginasse come meglio crede. Nel primo racconto, “Il posto sicuro”, addirittura non c’è neanche il nome.

Di certo esiste ed è ben delineata, una collocazione dei personaggi nel sociale. Sono tutti impegnati e tesi verso la governance.

Anche la descrizione delle città e delle abitazioni dei protagonisti risultano quasi “vive”, come co-protagoniste attive delle storie narrate.

Partiamo da un ordine che non c’è e che nasce solo quando il personaggio, protagonista in quel momento, inizia a muoversi nella società confrontandosi con gli altri e con lo spazio in cui si muove. Dal confronto con gli altri e con la propria realizzazione personale l’ordine arriva ad essere ricreato e si specchia negli ambienti e nei luoghi vissuti.

I racconti si basano su questo: riuscire a realizzare qualcosa di specifico e concreto e la casa è forse il simbolo primario della concretezza ricercata. Come se esistesse una vera e propria vivificazione degli oggetti che aiutano i personaggi ad entrare nell’onirico e a ritornare verso la realtà, con piena aderenza verso entrambi i mondi.

In “Ergo sum” è narrata la storia di una famiglia e c’è un accenno distopico che ci trasporta in un futuro non lontano, ma ancora prigioniero di devices e altre diavolerie tecnologiche…

La realtà sociale è, a volte, troppo statica per risultare del tutto “informatizzata” e la realtà sociale di Isabelle (fra circa 30 anni da adesso) viene mantenuta in piedi dai suoi genitori. Si nota un atteggiamento quasi rigido verso l’associazionismo. Isabelle la si individua come specchio della realtà sociale in trasformazione. Questo porta a chiedersi: qual è l’eredità delle nostre attività sociali? Sono esse trasmissibili ad un pubblico diverso da quello degli addetti ai lavori?

Di tutti i racconti, questo è forse il più complesso e critico. Storia di una realtà civica che emerge attraverso la narrazione alternata dei diversi personaggi. Più che punti di vista, qui abbiamo prospettive; la difficoltà di trasmettere un orizzonte culturale senza includere le trasformazioni già in atto in ambito non solo sociale, ma anche familiare e di conseguenza sentimentale.

Oltre che per l’amore “familiare”, c’è spazio anche per quello verso un altra persona? Come si declinano, nel romanzo, le passioni?

Non ho voluto interpretare l’amore come nelle classiche forme della letteratura; nonostante ciò, però, esso si esprime in forme diverse e molteplici e appare immerso soprattutto nelle condizioni liminali delle esistenze rappresentate.

Pur non essendo il tema principale e non muovendo le vicende, ne determina certamente scelte e circostanze.

Il mondo gira sotto i nostri piedi e possiamo scegliere la velocità a cui andare, ma l’incontro con l’altro, indispensabile e inevitabile, procede con altri schemi, vanifica le scelte, disorienta e assorbe benevolmente le sovrabbondanze personali. Il disorientamento cronologico in cui spesso le vicende sono immerse, legate come sono alla coscienza dei protagonisti, è approdo narrativo voluto e indispensabile.

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di Marianna Addesso

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