Giulio Iacchetti ritratto da Fabrizia Parisi

CAGGIANO. Incontro Giulio Iacchetti ospite alla terza edizione d’attesa del solstizio d’estate, negli orti multimediali dell’architetto Giuseppe Cafaro.

Industrial designer dal 1992, Iacchetti progetta per diversi marchi e nel corso della sua carriera è vincitore di due Compasso d’Oro, l’Oscar del design.

Il primo dei due lo vince nel 2001 con l’ormai famosissimo Moscardino, posata multiuso biodegradabile, disegnata con Matteo Ragni per Pandora Design.

Moscardino. Dal sito giulioiacchetti.com – 2022 riedizione Alessi in acciaio inox

 

Noi raccontiamo il bello: il bello nel made in Italy, il bello che c’è in noi, il bello nelle parole scritte, insomma il bello che ci circonda. Il design è sempre da considerarsi “bello”?

Non sempre il design è bello. Il design, piuttosto, ambisce ad essere buono; è la combinazione tra bello e utile. Più interessante, per me, quando si parla di design è il riuscire a pervenire ad oggetti “buoni” che abbiano la capacità di conciliare questi due valori a tal punto da farli diventare indistinguibili.

Questa è una buona modalità, un buon viatico per uscire dal grande enigma di cosa effettivamente sia il bello, una domanda che appassiona le persone non solo da generazioni, ma da interi secoli.

Foto di Mario Scelza

 

Penso alle proporzioni delle antiche statue greche

Proporzioni, armonia, la qualità del segno, della forma.

Come si fa ad affermare che una cosa è effettivamente bella o brutta? Forse solo tramite un raffronto, una comparazione, possiamo dire che preferiamo una cosa rispetto a un’altra.

Per capire bene il bello e soprattutto il buono bisogna frequentarli, guardare con attenzione alle cose.

Quando si parla di design, molto spesso vi si accompagna l’accezione d’élite, esclusivo. Lo ritiene corretto?

La parola “esclusivo” nel nostro gergo comune ha un valore. Se però analizziamo bene questo termine, “esclusivo” ha a che fare con l’escludere. Come se qualcosa diventasse interessante perché escludiamo qualcuno dall’accedere alla qualità, a quel determinato luogo o oggetto che abbiamo già definito “esclusivo” per qualche motivo.

Va da sé, quindi, che io non apprezzi molto questo accostamento di termini.

Foto di Mario Scelza

 

Durante il suo intervento, infatti, lei affermava che il termine “lusso” non le piace. Lusso è in qualche modo sinonimo di esclusivo.

No, non mi piace proprio perché è esclusivo. Perché smaccatamente vuole, in qualche modo, imporre uno status, acquisendolo, e concedendogli un altro tipo di credibilità che non ha. Non è bello pensare a oggetti che possono escludere altre persone nel loro utilizzo anche quotidiano.

Certamente ognuno è libero di scegliere come vuole nella vita. Però il vero mandato del designer era un altro ed è ancora quello: far pervenire ai più qualità, bellezza, estetica e funzionalità.

Qualità, bellezza, estetica e funzionalità racchiuse in una forma semplice, compiuta. Oggetti di uso comune raccontati nel loro uso quotidiano, ma a cui riconosce un vero concetto di design.
Questo è “Semplici formalità”, dove si legge che “progettare è un’attitudine alla sintesi”. Mi colpisce il cerotto, un oggetto molto utile, ma che di certo non fa pensare al design propriamente detto.

Il cerotto è un progetto. Proviamo a immaginare quando non esisteva. In questo modo capiamo immediatamente che nell’oggetto “cerotto” si consuma un’esperienza, un valore di ricerca. La semplicità è una complessità risolta, come dicevamo durante la conferenza. Un tempo, se ci si feriva, bisognava adoperare bende, garze e tutta una serie di complessi orpelli che più che aiutare mettevano in una situazione di disagio anche maggiore. Immagino la fatica dell’automedicazione se all’atto del ferimento ci si fosse trovati da soli.

Il cerotto è stata la soluzione. Un prodotto da poter utilizzare anche da soli, con l’adesivo e la garza sterile dove servono, che ha semplificato la vita di tutti. Un progetto compiuto, un prodotto finito fruibile da tutti con dietro uno studio attento.

Prodotti che ci semplificano la vita, dunque.

Sì. Direi che in genere gli oggetti dovrebbero concorrere a semplificarci la vita.

Sicuramente è davvero difficile stabilire cosa sia realmente da ritenersi indispensabile, una conditio sine qua non per poter vivere bene.

In ultima analisi si può affermare che questi oggetti sono delle facilities, cose che ci aiutano “in questo transito terrestre”, come diceva Battiato.

Un consiglio per chi volesse diventare designer?

La professione di designer è alla portata di tutti, a patto che ci sia curiosità, attenzione nel guardare le cose, andando oltre l’apparenza, e avere amore per tutto questo sistema oggettuale di cui siamo circondati. Credo che queste siano le caratteristiche più importanti per approcciarsi al meglio a questa realtà.

A questo aggiungerei la volontà, anche piccola, ma che sicuramente ci deve essere, di voler migliorare il mondo. Mi sembra un bel gesto da compiere. In fondo, le cose che facciamo, in qualche modo restano. E se lasciamo qualcosa di noi, una traccia visibile in questo mondo, che sia atta a migliorarlo, tanto meglio.

Ok la scuola, quindi, ma per riuscire bisogna avere quel quid in più.

Quando mai la scuola risolve tutte le questioni legate a una professione? La scuola può avvicinarti più velocemente a quel limite a cui potremmo arrivare tutti, con o senza di essa, ma da quel momento in poi dobbiamo cavarcela da soli.

Niente potrà mai sostituirsi a quello che si è, alla propria passione o all’identità. La scuola è utile, ma non possiamo delegare alla scuola tutto l’impegno e l’onere di affermare che il nostro percorso è compiuto.

Anzi, essere sempre in una condizione di incompiutezza è una bella dimensione. Essere animati dal dubbio, avere un tasso di insoddisfazione costante è una buonissima cosa. Riuscire a trasformare un disagio, anche esistenziale, in un lavoro che aiuta te e aiuta gli altri è bello.

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di Marianna Addesso

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