Intervista a Pasquale Errico: “Serve una tutela equilibrata per gli operatori di polizia. Il codice va aggiornato senza snaturarne l’anima”
Pasquale Errico, dirigente generale di pubblica sicurezza in quiescenza, interviene con una proposta concreta nel dibattito acceso attorno alla responsabilità penale degli operatori di polizia. In questa intervista spiega le sue riflessioni e la proposta di modifica al codice di procedura penale.
Dottor Errico, cosa l’ha spinta a riflettere su una possibile modifica del codice di procedura penale?
I recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto ufficiali e agenti delle forze dell’ordine – sia dell’Arma dei Carabinieri che della Polizia di Stato – mi hanno colpito profondamente. Sono vicende che suscitano, giustamente, attenzione e dibattito nell’opinione pubblica, ma che rischiano anche di mettere sotto accusa l’intero operato di chi, ogni giorno, si espone in prima linea per garantire sicurezza e legalità. La mia riflessione parte da qui: da un senso di responsabilità nei confronti di quegli uomini e donne che servono lo Stato e che, troppo spesso, vengono trattati come sospetti prima ancora che come servitori della collettività.
Qual è secondo lei il nodo più delicato?
Il problema sta nella rigidità con cui, in certi casi, vengono applicate norme pensate per contesti ordinari. Il codice di procedura penale ha una struttura straordinaria, ma quando si tratta di valutare fatti compiuti nell’esercizio del dovere – specie se riguardano l’uso legittimo della forza – occorre uno sguardo più attento e contestualizzato. Criminalizzare in automatico chi agisce per difendere l’ordine pubblico rischia di generare sfiducia, frustrazione e, soprattutto, una pericolosa deresponsabilizzazione.
Ci illustra, nel dettaglio, la sua proposta di modifica?
Con grande rispetto per la coerenza interna del codice di rito, ho studiato in particolare gli articoli 335 e 360. Propongo l’inserimento, nell’art. 335, di un comma 3-quater che permetta al Pubblico Ministero, con decreto motivato, di sospendere l’iscrizione nel registro degli indagati per un periodo massimo di quattro mesi, quando appare evidente che il fatto è stato compiuto nell’adempimento del dovere, in presenza di cause di giustificazione o non punibilità. Contestualmente, nell’art. 360, propongo due integrazioni. Con l’introduzione del comma 1-bis, si potrebbe prevedere che nei procedimenti a carico di operatori di pubblica sicurezza per fatti di servizio legati all’uso della forza, l’avviso al soggetto indagato venga sostituito da una citazione dell’Amministrazione di appartenenza. Infine, un comma 3-bis dovrebbe stabilire che agli accertamenti tecnici possa partecipare un consulente dell’Amministrazione, con spese a carico della stessa.
In sostanza, chiede di spostare l’attenzione dal singolo agente all’Amministrazione?
Esattamente. L’idea non è sottrarre l’operatore alla giustizia, ma ricondurre l’azione giudiziaria in un alveo più istituzionale, meno personalizzato e più attento al contesto. Quando un poliziotto usa un’arma in servizio, non lo fa come privato cittadino, ma come rappresentante di un corpo dello Stato. È giusto che, almeno nelle fasi iniziali, sia l’Amministrazione a rispondere e a partecipare attivamente al procedimento.
Non teme che questa proposta possa essere letta come un tentativo di sottrarre i poliziotti al controllo giudiziario?
Assolutamente no. Non c’è in me alcuna intenzione di creare zone franche. Al contrario: si tratta di garantire un equilibrio tra il diritto alla tutela giurisdizionale delle vittime e la necessità di non scoraggiare o intimidire chi opera per la sicurezza pubblica. È un’esigenza di giustizia, ma anche di funzionalità democratica. L’autorità che tutela la collettività non può essere lasciata sola, né sottoposta a una presunzione di colpevolezza.
Cosa si aspetta da questa proposta?
Non pretendo che venga accolta in blocco. Ma spero che possa aprire un confronto serio, lucido e rispettoso. È un invito a ragionare insieme, giuristi, magistrati, politici e cittadini, per trovare soluzioni che migliorino la nostra giustizia senza snaturarne l’anima. Non possiamo permetterci di lasciare che il diritto penale diventi uno strumento di delegittimazione dell’autorità pubblica, né che l’angoscia di un’indagine infondata paralizzi chi ogni giorno ci protegge.
Un’ultima domanda: quanto ha pesato nella sua riflessione la sua lunga esperienza nella Polizia di Stato?
Molto. Ma non in senso corporativo. Ho sempre cercato di coniugare il rigore della legge con l’umanità della funzione. So cosa significa indossare una divisa, ma so anche cosa significa dover rispondere delle proprie scelte. È proprio per questo che propongo una giustizia più consapevole, più rispettosa delle situazioni concrete, e più vicina allo spirito della nostra Costituzione.